IL SEGRETO È UNA LETTERA COMMOVENTE
Gli ultimi momenti del gioco sono stati da cardiopalma, le ultime sequenze al fulmicotone. Avevo una grande ansia. Proprio come Guybrush, sentivo la pressione della corsa contro il tempo. Volevo arrivare al finale. Al Segreto. Monkey 6, per i fan più accaniti, è stato tutto fuorché un’esperienza di gioco rilassante. Non è stata un’occasione per sedersi al pc e staccare dallo stress della vita. Decisamente no.
Devo essere sincero: speravo in un finale che chiudesse il cerchio. Ma da Gilbert dovevamo aspettarci… una conclusione alla Gilbert, ovviamente. E dunque ecco il finale aperto, le scene post credits differenti e tutti i misteri che hanno dato vita a moltissime teorie sul web. Teorie e analisi che abbondano talmente tanto da portarmi a non voler aggiungere altro. Non mi dilungherò troppo sul dibattito dei finali.
Di sicuro Monkey Island ha una lore complessa e indecifrabile più per motivi non-diegetici che altro. In due occasioni Gilbert fu costretto a rinunciare al segreto che aveva in mente (ovvero la rivelazione del sogno del bambino nel parco giochi a tema). In MI1 gli venne sconsigliato di concludere in questo modo, in MI2 gli venne chiesto di lasciare il tutto in dubbio. Ovvero accennare al fatto che anche dietro il parco giochi potesse esserci una maledizione di LeChuck. Se Gilbert avesse avuto carta bianca sin dall’inizio, il finale del primo capitolo sarebbe stato senza dubbio sconvolgente e traumatico ma quantomeno chiaro, cristallino. Non per nulla, alla fine di Monkey 6, una placca dice che il Segreto di Monkey Island come attrazione è stato established da Ron Gilbert nel 1989. Qui c’è una doppia lettura. Da un lato questo può voler dire che “il parco è stato established (fondato) da Ron Gilbert nel 1989”. Dall’altro, che Gilbert avesse già established (stabilito, deciso) che quello dovesse essere il Segreto sin dalle prime stesure. Solo che non glielo fecero mai fare.
E ora? C’è chi ritiene che tutta la saga sia una storia raccontata da Guybrush, vero pirata dei Caraibi, al figlio. Una storia raccontata inventando o ingigantendo dettagli qua e là. Altri ritengono vera la teoria dell’uomo comune con molta fantasia, il flooring inspector che vive ai nostri giorni e ha immaginato tutto.
Anche la teoria del flooring inspector è molto accattivante. Qualcuno la esclude dicendo che non abbia senso che Guybrush sia un uomo dei giorni nostri: ha abiti settecenteschi, e alla fine parla con Elaine della mappa di un tesoro. Ma il vestito potrebbe essere un costume, un cosplay con cui l’uomo si è diretto al parco a tema. E Mire Island potrebbe essere il nome di una ennesima attrazione o di una caccia al tesoro del parco. Ma, ripeto, non voglio entrare tanto in questo dibattito. Vorrei solo dire che, per me, il senso di angoscia a gioco finito è stato tanto. Non avevo le risposte che volevo ed ero più confuso che altro. Ma è stato all’ultimo secondo che ho trovato la chiusura del cerchio.
Perché, secondo me, il segreto è nella lettera di Ron Gilbert e Dave Grossman ai fan.
La lettera
No, non intendo che gli autori abbiano pensato letteralmente che la lettera fosse il Segreto.
Intendo dire che per anni abbia cercato di dare un senso alla saga di Monkey Island per dissiparne i misteri. E il senso, dunque il segreto in senso più ampio, è proprio in quella lettera. La lettera ci spiega quanto, in ogni gioco, la vita di Guybrush rifletta la vita dei suoi creatori: game designer che si affacciarono sul mercato in cerca di gloria e che ora, al termine di molte avventure e molti giochi portati a termine, sono costretti a fare i conti con il tempo che passa. Leggendo questa riflessione ho pensato a come Guybrush sia specchio anche della vita dei giocatori, non solo dei suoi creatori. Dapprima sei un giovane con mille prospettive davanti, e pian piano eccoti diventare la persona che sei adesso. Qualcuno che molte delle sue glorie le ha già vissute e le rimira con nostalgia. Anche noi, che con Monkey Island siamo letteralmente cresciuti, siamo persone che affrontano tempi che sono completamente cambiati. E di fronte a questi tempi, anche noi – come l’ultimo Guybrush – non vogliamo rimanere indietro. Vogliamo restare in sella, o risaltarci sopra se siamo caduti. La lettera dice che Guybrush riesce in parte in questo proposito. E che alla fine trova qualcosa, qualcosa che non necessariamente è quello che si aspettava. Quante volte è stato così anche per noi?
Tutto questo per dire che anche noi, non solo i creatori del gioco, siamo stati Guybrush in alcuni momenti della nostra vita. Possiamo rigiocare al secondo capitolo e ricordarci di quegli anni in cui eravamo gasati a mille e credevamo di avere il mondo in mano prima che eventi esterni mettessero tutto in discussione. Qualcuno di noi può vedere la parabola del quarto capitolo pensando a tutto ciò che lo ha portato a sposarsi e mettere la testa a posto. Questo dice la lettera. E, per me, il Segreto è proprio comprendere cosa sia stato Monkey Island per le persone che lo hanno creato e per le persone che lo hanno giocato.
La lettera mi ha commosso. Non mi ha fatto uscire le lacrime, anche se avrei voluto, ma il magone c’era. Era commovente leggere le riflessioni di questi artisti che ci hanno dato così tanto, e scoprire il loro rapporto con la loro creatura e con questo universo narrativo. Ti smuove dentro sapere quanto anche loro tengano al personaggio, al punto da essersi identificati con lui. Sono toccanti i riferimenti agli altri prequel, con accenni rispettosi ai colleghi che ci hanno lavorato e alle loro personalissime quest. Io faccio parte di quella generazione che MI lo conosce dall’infanzia, ormai si è capito. Anzi, MI rappresenta per me un insieme di ricordi fra i più vividi e positivi dell’infanzia. E per quelli della mia età è proprio vero quanto dice la lettera: già nel quinto capitolo, vedendo Guybrush raggiungere più o meno i trenta, ci trovammo a riflettere sul tempo che passa proprio grazie a Monkey Island. Questo sesto capitolo alimenta questo tipo di riflessione, e forse potremo rivederci in questo Guybrush fra meno di una decina d’anni.
Monkey Island riflette la nostra vita. La parabola del personaggio che amiamo è la nostra parabola. Ma contiene una morale. Un discorso di accettazione molto profondo. Anche noi siamo stati giovani “pirati” con l’ambizione di realizzare migliaia di cose. Siamo stati in grado di inanellare progetti per tutta la vita. Abbiamo visto il tempo scorrere, molti sogni sfumare, molti amici andarsene. Nel frattempo, qualcosa è andato bene e qualcosa è andato male. In alcune cose abbiamo fallito, in altre avuto successo. Guybrush – che sia un pirata o un flooring inspector – alla fine accetta quello che è. Accetta e ci fa accettare che la vita sia proprio questo. Quando rimane solo sulla panchina, nel finale, vive un attimo di pura mindfulness. Egli si gode quel momento, quella consapevolezza, da solo. Sembra accettare serenamente che la sua vita sia andata in un certo modo. Che molte cose belle siano accadute, o siano state solo sognate ma con tanta forza da sembrare vere. E tutta la scena sembra aiutarci a dire a noi stessi: sì, ormai non sono più giovane, ma non lo è nemmeno Guybrush e lui è uno dei miei eroi. Anche noi siamo stati eroici, a nostro modo.
E con noi intendo noi fan di Monkey Island. Abituati – o addestrati sin da piccoli, proprio grazie a questo gioco? – a buttarci in avventure che ci potessero mettere alla ricerca di qualcosa. E alla fine troviamo sempre qualcosa. Ma non sempre è quello che ci saremmo aspettati. Proprio come Guybrush.